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L'effetto fotoelettrico: definizione e formule

Luca Mussi

Luca Mussi

DOCENTE DI FISICA E MATEMATICA

Insegnante appassionato di fisica e matematica con laurea in Astrofisica. Fondatore di PerCorsi, centro di supporto allo studio con sedi a Milano e in Brianza. Appassionato di cucina, viaggi, e sport come rugby, basket e calcio. Curioso del futuro e sempre desideroso di imparare.

La luce ha sempre avuto un ruolo centrale nelle nostre vite, non solo come fonte di illuminazione ma anche come chiave per svelare alcuni dei misteri più profondi della natura.

Il ricercatore Philipp Lenard fu uno dei primi a osservare questo intrigante comportamento. Le sue esplorazioni hanno mostrato che la luce, quando proiettata su alcune superfici, può effettivamente liberare elettroni da esse. Questa scoperta sollevava una domanda fondamentale: come può la luce, qualcosa di apparentemente immateriale, influenzare la materia in modo così tangibile?

Per rispondere a questa domanda, è stato necessario un nuovo modo di pensare alla luce stessa. Entrò in gioco il modello proposto da Max Planck, secondo il quale la luce poteva essere vista non solo come un’onda, ma anche come un insieme di “pacchetti” o “quanti” di energia. Questa visione quantistica della luce è stata la chiave per spiegare l’effetto fotoelettrico: quando questi pacchetti di luce (fotoni) colpiscono un materiale con sufficiente energia, possono liberare elettroni da esso.

Approfondiamo insieme questo tema!

L’esperimento dell’effetto fotoelettrico

Apparato sperimentale dell’effetto fotoelettrico


Grafico del potenziale d’arresto

L’apparato sperimentale per la verifica dell’effetto fotoelettrico è composto da un tubo a vuoto all’interno del quale viene fatta passare una radiazione ultravioletta monocromatica che incide su una lastra metallica detta “catodo” £$C$£. L’energia dell’onda elettromagnetica libera gli elettroni dalla lastra £$C$£, attratti da un’altra lastra £$A$£ detta ànodo producendo una differenza di potenziale £$\Delta V= V_A-V_C$£. Le due lastre sono collegate ad un circuito elettrico con resistenza variabile che può far variare £$\Delta V$£.

Facendo variare la resistenza del circuito possiamo fare in modo di avere una differenza di potenziale negativa che interrompa la corrente nel circuito “fermando” gli elettroni liberati da £$C$£: chiamiamo il modulo di £$-\Delta V$£ potenziale d’arresto indicato con £$\Delta V_a$£.

Si può dimostrare tramite la conservazione dell’energia che l’energia cinetica finale massima di un elettrone liberato da £$C$£ è data dal prodotto tra la carica dell’elettrone £$e$£ e il potenziale d’arresto: £$K_{max}= e \cdot \Delta V_a$£. Questa formula ci permette di calcolare l’energia cinetica massima degli elettroni liberati da £$C$£ tramite il potenziale d’arresto.

Analisi classica dell’effetto fotoelettrico

Dai dati sperimentali, i fisici notarono che l’energia cinetica massima £$K_{max}$£ e il potenziale d’arresto £$V_a$£ NON dipendevano dall’irradiamento della lastra; si verificò che, aumentando l’intensità della radiazione, £$K_{max}$£ e £$V_a$£ non variavano.

L’elettromagnetismo classico prevedeva che, aumentando l’irradiamento su una lastra metallica, gli elettroni liberati sarebbero stati di più. Secondo la teoria di Maxwell un irradiamento maggiore e prolungato nel tempo significava un maggiore lavoro su ogni elettrone della lastra e quindi la possibilità di fornire qualsiasi quantità di energia potendo liberarli, potenzialmente, tutti. Questo non era ciò che accadeva sperimentalmente nell’effetto fotoelettrico! I dati mostravano che £$K_{max}$£ dipendeva solo dalla frequenza dell’onda elettromagnetica e che gli elettroni venivano liberati dalla lastra solo se la radiazione aveva una frequenza maggiore di una £$ f_{min}$£ detta frequenza di soglia, prima della quale non si avevano scambi energetici.

I fotoni di Einstein e l’effetto fotoelettrico

I quanti erano stati concepiti da Planck come un “artificio matematico” che risolvesse la catastrofe ultravioletta. Nel 1905 Albert Einstein pubblicò diversi suoi lavori tra cui l’interpretazione dell’effetto fotoelettrico per cui ricevette il premio Nobel nel 1921. Secondo Einstein, i quanti, da lui ribattezzati “fotoni” della luce, non erano solo un modello, ma rappresentavano realmente la costituzione della radiazione elettromagnetica luminosa negli scambi energetici.

I fotoni, che ora sono considerati una realtà, hanno delle caratteristiche particolari:

  • possono viaggiare alla velocità della luce dato che non hanno massa
  • ogni fotone ha un’energia definita dalla relazione di Planck: £$E=h \ f$£
  • hanno quantità di moto relativistica data dalla formula £$p=\frac {h \ f}{c}$£, non avendo massa
  • possono assumere solo valori energetici interi e definiti

Le peculiarità dei fotoni furono fondamentali per spiegare le incongruenze dell’effetto fotoelettrico.

Perché un elettrone sia liberato dalla lastra metallica, la frequenza dell’onda elettromagnetica che vi incide deve essere maggiore della frequenza di soglia, perciò l’energia del fotono £$E=h \ f$£ deve essere maggiore o uguale del lavoro di estrazione richiesto £$W_e$£ per liberare l’elettrone: £$E \ge W_e$£ £$h \ f \ge W_e$£$£

Possiamo allora ricavare la relazione che determina la frequenza di soglia, caratteristica di ogni metallo: £$f_{min}= \frac{W_e}{h}$£. Abbiamo risolto il primo problema: l’effetto fotoelettrico si manifesta solo se l’onda elettromagnetica che incide su una lastra metallica ha una frequenza maggiore o uguale della frequenza di soglia.

Il secondo nodo da sciogliere riguarda la dipendenza dell’energia cinetica massima dell’elettrone estratto dalla frequenza della radiazione. Sappiamo, per la conservazione dell’energia, che: £$K_{max}=E-W_e=h \ f-h \ f_{min}$£. Deduciamo allora che l’energia cinetica massima è proporzionale alla differenza tra la frequenza dell’onda elettromagnetica £$f$£ e la frequenza di soglia £$f_{min}$£.