Il visconte dimezzato (1952) di Italo Calvino si inserisce nella tradizione delle opere precedenti, rinnovandola dal suo interno. Se da Stevenson viene ripresa la tecnica dello sdoppiamento, tale processo avviene qui solo per metà: il protagonista viene colpito in guerra da una palla di cannone che lo separa in due metà fisiche ed etiche. Una metà è buona, mentre l’altra incarna l’orrore dell’umanità.
Tuttavia sarebbe sbagliato ridurre l’opera calviniana a questa lettura superficiale e binaria: l'intento dell’autore consiste nella volontà di riflettere sulla vera identità dell’essere umano. La divisione di cui Medardo è vittima diventa, per l'autore, allegoria dell'uomo contemporaneo, incompleto, nemico a se stesso. Secondo Calvino tutti gli uomini si sentono in qualche modo incompleti, dedicandosi e realizzando soltanto una parte di sé, trascurando l’altra.
Nessuna delle due metà riesce infatti a beneficiare dell’incidente: entrambi i mezzi uomini provano rabbia e ostilità nei confronti dell’altro. Dunque, non è soltanto la parte malvagia a dare il peggio di sé, ma anche quella buona, che a livello ipotetico potrebbe sembrare la migliore, non è comparabile all’individuo nella sua integrità.
Questo viene dimostrato anche dal fatto che nessuno dei due Medardi esce vittorioso dallo scontro finale, anzi, è soltanto grazie a questo che il visconte torna a essere intero.
Fuori di metafora, dunque, l’uomo per considerarsi completo deve essere turbato dal conflitto tra bene e male, che ne costituisce proprio la peculiarità.
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